Dalla rivoluzione alla persecuzione
 
La Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori nasce e cresce in un contesto sociale e politico molto turbolento: quasi una fotocopia della vita del Fondatore.
L’assetto politico del Congresso di Vienna aveva disegnato un’Europa che non esisteva più, non solo perché Napoleone l’aveva sconvolta al punto tale da non poter essere più ricostituita ma perché era cambiata nell’anima, nel cervello, nei valori.
Le rivoluzioni del 1848 colgono tutti di sorpresa. Metternich non avrebbe mai immaginato che sarebbero partite da Palermo (12 gennaio 1848) per dilagare in tutta Europa, costringendo in poche settimane la maggior parte dei governi assolutisti a fare concessioni costituzionali.
Da Palermo la rivolta dilaga sul continente e raggiunge Napoli. I sovrani italiani si accorgono in ritardo della necessità di appoggiare i moderati e concedono costituzioni alla rinfusa. Ferdinando delle Due Sicilie la concede il 29 gennaio, Leopoldo di Toscana l’l 1 febbraio, Carlo Alberto fra il 4 e il 5 marzo, Pio IX il 14 marzo e Carlo Il di Parma il 29 dello stesso mese.
La costituzione è un escamotage politico e giuridico che non risolve. A Napoli, moderati, democratici e liberali non riescono a fare causa comune: ognuno ha delle rivendicazioni diverse da fare, in rappresentanza di frazioni diverse di una società ormai sfasciata per la scomparsa del potere regio. La divisione offre a Ferdinando la possibilità di porre fine all’opposizione radicale nel nuovo parlamento: il 15 maggio fa prendere d’assalto le barricate erette nelle vie di Napoli da calabresi, cilentani e guardie nazionali. Un vero e proprio colpo di Stato, il suo, che segna il primo successo della reazione contro la rivoluzione.
Dal Piemonte Carlo Alberto tenta di organizzare una fede razione tra tutti i principi della penisola per attaccare l’Austria, con la prospettiva di realizzare uno Stato unitario sotto la sovranità sabauda. Prospettiva poco allettante per tutti, che riscuote tiepidi consensi da parte dei sovrani italiani, i quali potevano concordare sulla necessità di liberarsi della fastidiosa e invadente presenza dell’Austria ma non capivano perché questo dovesse comportare la rinuncia ai loro troni.
Il più fiero oppositore della guerra contro l’Austria è Pio IX, che non poteva esporsi alle conseguenze internazionali di una partecipazione militare dello Stato Pontificio contro un paese cattolico. Dal canto suo, Ferdinando II prima invia e poi ritira il suo corpo di spedizione.
Toccherà a Cavour, con la sua destrezza e spregiudicatezza, condurre il processo unitario e lo farà giocando da par suo su un doppio tavolo, quello europeo e quello italiano. Prima di tutto si allea (gennaio 1859) con la Francia contro l’Austria, ottenendo da Napoleone 111 una visibilità politica che paga caramente in termini territoriali e di dipendenza del Piemonte dalla politica francese.
Napoleone lo tradisce. Dopo le sanguinose e vittoriose, per l’esercito franco-sardo, battaglie di Solferino e di San Martino (4 giugno 1859), firma a sua insaputa l’armistizio con l’Austria. Cavour viene messo, per il momento, fuori gioco. Ma esce con la conferma di avere il coltello per il manico. Napoleone  III lo ha tradito perché aveva paura della potenza espansionistica dell’armata prussiana, ma soprattutto perché temeva che Cavour riuscisse nell’intento di scatenare la rivolta in Toscana, nella Romagna pontificia, mettendo in crisi gli impegni presi con Pio IX, creando confusione nelle truppe francesi di stanza a Roma e rischiando in Francia una pericolosa opposizione dei clericali.
Cavour si mette in attesa, nella certezza che Napoleone III sarebbe ritornato, per forza di cose, al tavolo di gioco. E da questa posizione defilata segue l’avventura di Garibaldi.
Il generale nel marzo 1860 viene sollecitato da più parti a conquistare la Sicilia per avviare il processo unitario, ma si dimostra scettico.
Ma il 4 aprile Palermo insorge e la rivolta contro i Borboni dilaga in tutta l’isola. A informare Garibaldi sono Crispi e Bixio. È il semaforo verde che il generale aspettava. Si getta subito nell’impresa, tentando di coinvolgere Vittorio Emanuele. Ma non ottiene il permesso di reclutare volontari nelle file dell’esercito regolare. 1 Mille sono quanto di più disomogeneo e folcloristico si possa immaginare: ci sono professionisti e intellettuali, artigiani e operai, ci sono lombardi, veneti e liguri, toscani e siciliani, tra cui i principali esuli dell’isola come Crispi, Orsini, Orlando.
La spedizione dei Mille parte da Quarto il 5 maggio del 1860.
Il 30 maggio l’armistizio segna la fine del governo borbonico in Sicilia. Sono soprattutto le masse contadine ad assicurare al generale il massimo di penetrazione. Ma Garibaldi non sa gestire questo sostegno e ha l’infelice idea di chiedere la coscrizione obbligatoria là dove nemmeno i Borboni erano riusciti a farlo.
La conquista militare comincia a produrre grane politiche di non poco conto. Garibaldi si rifiuta di proclamare l’annessione della Sicilia al Regno di Sardegna, per disporre di una base strategica, mentre il successore di Ferdinando 11, il figlio Francesco 11, in previsione dell’arrivo di Garibaldi, concede la costituzione (25 giugno) e avvia colloqui con i piemontesi per una comune politica italiana. L’unico interlocutore è Cavour. Lo devono  ammettere sia Vittorio Emanuele, cui quel primo ministro dà molto fastidio, sia Garibaldi.
 
Il 18 agosto il generale sbarca sul continente, attraversa Calabria e Basilicata, punta su Salerno e il 7 settembre entra a Napoli, subito dopo la partenza di Francesco II. Cavour aveva tentato senza successo di far insorgere Napoli prima dell’arrivo dell’eroe. Adesso deve in tutti i modi impedirgli di raggiungere Roma. Invia le truppe dell’esercito regolare a occupare Marche e Umbria e Garibaldi si arrabbia: il politico sta scippando al militare il successo. L’eroe dei due mondi chiede al re le dimissioni di Cavour, ma il primo ministro lo ha anticipato: ha convinto fin troppo facilmente Vittorio Emanuele a mettersi a capo dell’esercito di invasione. Garibaldi si trova brutalmente di fronte alla prospettiva di combattere contro il re.
Vittorio Emanuele conquista velocemente i territori pontifici (eccetto Roma e il Lazio) ed è ormai a contatto con le truppe garibaldine, deciso a bloccarle anche con la forza. Impone a Garibaldi di obbedire e, a Teano, Garibaldi dice: “Obbedisco”.
È il 25 ottobre 1860. In qualche modo l’Italia unitaria viene rabberciata. Sono indetti i plebisciti per ottenere il consenso popolare. L’ordine è perentorio: devono essere favorevoli.
Gaetano Errico farà di tutto perché i suoi congregati, i sacerdoti che gli chiedono consiglio e i suoi amici non partecipino a queste consultazioni. Ne ricaverà una cocente delusione. Ed è un comportamento che dobbiamo spiegare.
 
 
Segni dei tempi
 
Don Gaetano ha impostato la propria missione sacerdotale in maniera molto chiara. Suo ambiente di lavoro è la Chiesa, suoi referenti sono i fedeli che in essa hanno bisogno di crescere nella fede e nell’amore di Dio. Gli strumenti che ha scelto di impiegare sono quelli offerti dalla vita religiosa: la povertà, la castità e l’obbedienza. Le strategie che adotta sono la diffusione della parola di Dio per l’evangelizzazione dei popolo; la confessione, per produrre cambiamento nella vita religiosa e sociale; il servizio ai poveri, per valorizzare il loro contributo alla salvezza; l’istruzione per dare ai poveri la parola.
Questa scelta a tutto campo della Chiesa non lo estrania dal contesto sociale e culturale in cui vive. È presente in esso con una sua concezione politica di indirizzo monarchico (è uno dei consiglieri di Ferdinando II); con una sua concezione economica (l’economia a servizio dell’uomo); con una sua visione del mondo legata all’umanesimo classico, alla grande tradizione filosofica e teologica adottata nei secoli dalla Chiesa; con una particolare propensione a privilegiare, in questa tradizione, il filone del cuore e dell’amore piuttosto che quello delle armi e della dialettica politica.
Derivano di qui i suoi criteri di giudizio e di azione.
Lo colpisce negativamente, nei moti rivoluzionari, il ricorso alla violenza, alla divisione, all’anticlericalismo, agli interessi di parte rispetto agli interessi comuni. L’dea che per cambiare occorra distruggere non gli appartiene: per cambiare occorre convertire. Dalle macerie nascono solo mostri e fantasmi. A offendere la sua sensibilità di uomo e di sacerdote sono soprattutto gli attacchi contro il clero, le offese alla religione e il furto sistematico dei beni della Chiesa, che venivano confiscati in nome di non si sa quale diritto.
L’anticlericalismo è una forma di stupidità, per niente scomparsa, che a quei tempi aveva una diffusione endemica. Nasceva da un bizzarro cortocircuito logico, a conferma della sua totale irrazionalità: alcuni anticlericali sostengono che Dio non esiste che alla Chiesa e ai preti non spetta dunque nulla, perché non hanno alcuna ragione di esistere; altri dicono che Dio esiste ma non è dei preti e della Chiesa. Insomma, ci sia o non ci sia Dio, preti e Chiesa non devono essere. La religione è inutile, pericolosa, reazionaria, antidemocratica e chi più ne ha più ne metta.
Ai tempi di cui ci occupiamo, il Papa aveva in Italia una sua rilevanza politica in quanto era uno dei tanti principi che governavano il Paese, aveva un suo territorio da gestire (Stato Pontificio) ed esercitava un potere temporale, per effetto di una antichissima eredità, che oggi siamo tutti contenti sia andata perduta. Allora questa versione temporale del papato svolgeva comunque la funzione di dare visibilità, credibilità, forza e capacità contrattuale alla Chiesa. Era riconosciuta e come tale trattata: apparteneva all’ordine delle cose. Per modificare questo ordine si è scelta la più comoda strada possibile: quella della rapina, della squalifica, della violenza. Strada fin troppo facile, dal momento che la religione è il più economico e disponibile capro espiatorio che si possa adottare.
Pio IX non ci sta. E don Gaetano non può che condividere. I Vescovi vengono sottoposti a un regime di controllo poliziesco, vengono allontanati dalle loro sedi per motivi di ordine pubblico, accusati di essere responsabili di rivolte che invece sono organizzate allo scopo; Garibaldi sopprime la Compagnia di Gesù e la Congregazione del Santissimo Redentore, scacciando dalle case i religiosi con violenze di ogni genere; i beni dei Gesuiti e delle mense vescovili e arcivescovili vengono incamerati e dichiarati beni nazionali; tutte le associazioni cattoliche, le congreghe e le opere di beneficenza vengono laicizzate.
Vengono aboliti il Concordato e la Convenzione tra la Santa Sede e il Regno delle Due Sicilie, il privilegio dell’immunità. La religione cattolica è equiparata alle altre religioni; tutti gli Ordini e le Congregazioni religiose, per decreto, vengono soppressi e i loro beni vengono confiscati. Si salvano solo alcuni enti religiosi considerati benemeriti per il servizio reso al popolo.
I preti pagano spesso con la vita la loro fedeltà alla Chiesa. Don Gaetano non esita a parlare di martirio. A Bari don Tanzella, rettore del seminario, viene barbaramente trucidato mentre era condotto al Castello. Il suo Arcivescovo viene allontanato dalla città.
E questo offende qualsiasi persona di buon senso e di buon gusto. Offende molto di più un figlio della Chiesa, come don Gaetano, che vede maltrattata e infangata la madre. Non può accettare, non può prendere in considerazione ragioni di sorta. Il che lo rende rigido. Ma non reazionario.
A mano a mano che Garibaldi avanzava verso Napoli, don Gaetano diceva: “Ora cominciano guai per la nostra Congregazione, perché i rivoluzionari vanno contro la Chiesa”.
A dar loro man forte ci si mettono anche alcuni preti, che si danno il titolo di “preti unitari” e, sostituita la tonaca con la camicia rossa, si distinguono per la violenza con cui attaccano il Papa e la Chiesa e per il delirio che fa loro vedere in Garibaldi nientemeno che il messia della libertà. Curiosa sostituzione del principio di autorità: dal Papa a Garibaldi, dalla talare bianca alla camicia rossa, dalla croce al fucile come se tutto questo configurasse un cambiamento reale e non fosse invece un semplice esercizio di travestitismo, operato in assenza di una identità psichica e culturale qualsiasi.
A Napoli dominano  la scena un certo fra Pantaleo e un ex barnabita, Alessandro Gavazzi. Citiamo un esempio significativo (della loro confusione mentale, tratto da una predica al clero napoletano tenuta da fra Pantaleo il 12 settembre 1860 nella chiesa dello Spirito Santo:
“Bisogna bandire una crociata per aversi un clero guerriero. Si è ormai tempo che che ognuno del clero insieme col crocifisso deve stringersi lo schioppo e stringersi di spada. Né ciò deve recare alcuna ammirazione. Poiché anch’io, allorquando dimoravo in Nizza mia patria e indossai l’abito di riformato, non ero uso alle armi e, salvo tre o quattro volte che avevo sparato la scioppo nell’esercizio della caccia, io ignoravo del tutto il maneggio del fucile. Ma quando mi trovai in mezzo a  quei prodi, in un subito cambia l’abito per essere più libero, divenni guerriero e più d’uno fu ucciso da mio braccio e poi dopo, con coscienza tranquilla e serena, celebrai la Messa a beneficio dei soldati italiani”.
Il cardinale Riario Sforza sospende a divinis i preti guerrieri (proibisce loro di esercitare il ministero sacerdotale, in pratica) e mette in guardia clero e fedeli dal sedicente Comitato  unitario ecclesiastico. Il governo, nella persona del ministro di Polizia Raffaele Conforti, non gradisce la presa di posizione del Cardinale e spiega all’Arcivescovo che Garibaldi intende rispettare la religione e che a essere puniti sono quei sacerdoti, che profittando del loro ascendente mettono in cattiva luce i capi del moto nazionale.
Il Cardinale respinge la spiegazione al mittente, facendo notare che la giurisdizione sui preti spetta a lui, secondo le leggi della Chiesa, e non a Garibaldi. Un generale governa i suoi soldati, il vescovo governa i suoi preti.
Non ci stanno e cercano allora di incastrarlo. Fra Pantaleo, assieme a un altro garibaldino il 21 settembre sale in arcivescovado per sollecitare l’adesione del presule al nuovo governo. Per essere più convincente butta là qualche minaccia. Il Cardinale non abbocca e risponde che non è da un semplice prete, sia pure rivoluzionario, che dipendono le scelte della diocesi. Fra Pantaleo lo avverte che dovrà fare per forza quello che si rifiuta di fare spontaneamente.
E infatti poche ore dopo arriva in arcivescovado il tenente colonnello Trecchi con una ordinanza di Garibaldi, così articolata: il Cardinale deve riconoscere il nuovo governo; ammettere alla celebrazione della Messa i preti al seguito di Garibaldi; permettere al clero, soprattutto ai più giovani, di partecipare attivamente alla crociata per la santa causa d’Italia.
Il Cardinale chiarisce che non esiste alcun impedimento a riconoscere una qualsiasi autorità, purché legalmente costituita, che la situazione dei preti unitari sarà trattata caso per caso come indicato dalle leggi della Chiesa e che i preti devono occuparsi della santa causa di Dio e non della santa causa dell’Italia. Il Trecchi osserva che Garibaldi difficilmente prenderà per buone risposte del genere. Il Cardinale ne è certo, ma non modifica la risposta.
Alle sedici in punto – quando la burocrazia non c’è gli affari assumono una velocità eccezionale – il Trecchi ritorna in arcivescovado con l’ordine di espulsione: il dittatore ordina all’Arcivescovo di lasciare la città nell’arco di due ore e di partire per Roma. Il cardinale Sforza andrà invece a Genova.
Don Gaetano viene informato del fatto mentre è in confessionale. Ne è molto turbato.
Garibaldi ha la spudoratezza di giustificare il proprio operato presso l’opinione pubblica con motivi di sicurezza e di patriottismo. Ma ormai è chiaro che la politica della sopraffazione, della persecuzione, del manganello è quella che viene adottata dal nuovo regime, per aver ragione della resistenza della Chiesa.
Il lamento di don Gaetano è: “Povera religione”. Obbligata, da sempre, al martirio per autoalimentarsi. Ai sacerdoti ricorda: “Beati quegli ecclesiastici che moriranno nella persecuzione. Oh, potessi avere io la stessa sorte. Ora è tempo di vedere quali saranno i veri seguaci di Gesù Cristo”.
“La fede” ripeteva di continuo “è un tesoro di inestimabile valore, dobbiamo contentarci di perdere tutto per non perderlo”.
Le rivoluzioni hanno tutte una certa predisposizione a diventare persecuzioni. Si tratta di un processo degenerativo inevitabile quando gli ideali rivoluzionari non vengono calati nella realtà in tempo utile. La cultura rivoluzionaria ha una scarsa dimestichezza con il tempo: teorizza il futuro ma non lo sa gestire, rifiuta il passato e si limita a governare il presente, necessariamente costretta al gesto fine a se stesso, all’esibizione di una forza che non ha, alla organizzazione forzata del consenso popolare, dal momento che è incapace di persuadere e di convincere.
 
Indipendenza e unità d’Italia, seminate in questo improbabile terreno di coltura, si presentano immediatamente come un progetto confuso e pasticciato: si pretendeva di modificare i rapporti di potere, di rinnovare i titolari del potere, di abolire i confini precedenti senza porsi la questione del reale cambiamento che questo potere avrebbe dovuto produrre, delle reali competenze a gestirlo che i nuovi titolari dovevano possedere; della direzione che avrebbe preso la marcia di una società ristrutturata a tavolino, cui si vogliono attribuire nuove dimensioni territoriali, come se questo fosse sufficiente per convincere un abitante di Secondigliano che poteva indifferentemente sistemarsi in Toscana o in Piemonte, che sempre casa sua era.
Non stiamo dando giudizi di valore, ma tentando di ricostruire il clima di quegli anni, allo scopo di capire perché don Gaetano li abbia letti con tanta apprensione e angoscia.
Sappiamo che disponeva di strumenti critici molto raffinati e sappiamo che disponeva anche di particolari doni per guardare a distanza. Aveva una visione tale degli eventi da poter rassicurare Pio IX che un eventuale ritorno a Roma non avrebbe rappresentato alcun rischio per la vita, “ma pace non ne avrete mai”. Rassicura il confratello padre Ferrara che ha delle perplessità a raggiungere la sua nuova sede di Roma: “Lì starete tranquilli, qui no”. Non richiama da Roccasecca il padre Luigi Torrese, su richiesta dei familiari preoccupati, perché sicuro che il pericolo vero è a Napoli, non a Roccasecca.
Vede il presente e anche il futuro. È ammalato, costretto sempre più spesso a letto, ma molto vigile e partecipe.
L’arrivo di Garibaldi a Napoli ha movimentato un po’ anche Secondigliano. Il paese in questi anni di turbolenza era stato tutto sommato risparmiato dagli eccessi, ma l’evento è tale che i patrioti secondiglianesi ritengono doveroso sottolinearlo con qualche iniziativa folkloristica e con qualche addobbo patriottico delle strade. Ed ecco che come per incanto il tricolore sventola da tutte le finestre.
Una festa tranquilla che qualche delinquente cerca di sfruttare per portare a soluzione, a modo suo, qualche pendenza personale. Viene preso di mira il farmacista, un certo don Pietro Marino, che ha il negozio davanti alla chiesa parrocchiale. Pare fosse un tipo piuttosto ciarliero e menagramo. Il reale motivo non lo si sa ma, in questa circostanza, c’è chi tenta di rovinarlo. Nella notte dei festeggiamenti qualcuno si arrampica sul balcone di casa Marino, strappa il tricolore e issa la bandiera borbonica. Ce n’era abbastanza per essere fucilato. Non si sa come don Gaetano lo viene subito a sapere e, in piena notte, entra in azione: amico di lunga data del farmacista, cui ha già risparmiato qualche bastonata, gli piomba in casa e, in fretta e furia, fa sparire la bandiera borbonica e rimette il tricolore al suo posto. Al farmacista viene da piangere dalla paura e dalla commozione.
Appena si fa mattino, don Gaetano punta dritto alla sede del Comitato dei patrioti, denuncia con forza l’accaduto e inette tutti in guardia dal compiere altri atti di brigantaggio, col pretesto di patriottismo, perché a lui non sarebbe costato nulla andare direttamente da Garibaldi a trattare la faccenda.
I patrioti sanno molto bene che don Gaetano è abituato a trattare con i potenti. Assicurano il loro concittadino prete che non succederà mai più un fatto del genere.
Queste giornate tumultuose coincidono con l’aggravarsi delle condizioni di salute di don Gaetano, tormentato da una piaga alla gamba destra che gli causa grandi dolori e dalla sua asma cronica. Come ha una visione chiara della situazione politica, così conosce bene il punto cui è giunta la sua avventura personale: lui sa già che non vedrà gli effetti devastanti di quella confusa storia. Per questo non cessa di mettere i suoi figli in guardia.
 
Quando si comincia a parlare di plebiscito lui è irrimediabilmente inchiodato a letto, da lì affronterà l’ultima impresa della sua straordinaria esistenza.
Il governo decide di celebrare il plebiscito voluto da Cavour il 21 ottobre. Scopo della consultazione era consentire anche alle province dell’Italia meridionale di manifestare “liberamente per suffragio diretto universale, la volontà della popolazione di far parte integralmente della monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele e dei suoi discendenti”. 1 proclami hanno una ironia inarrivabile.
La votazione viene pilotata dai patrioti con intimidazioni, minacce, pressioni e brogli, tanto risulta chiara la volontà della popolazione di far parte della monarchia costituzionale. Molti sono spaventati. Chi non voleva votare o intendeva votare contro l’annessione veniva trattato sui manifesti come traditore della Patria.
Sono in molti a chiedere a don Gaetano come comportarsi: ai laici suggerisce di votare no; ai religiosi e ai suoi congregati dice che non devono nemmeno presentarsi alle urne, per non dare scandalo.
La sua opinione è nota in paese e, quando il messo comunale si vede da lui rifiutare la lista dei confratelli presenti in comunità – lista necessaria per inserire i loro nomi negli elenchi elettorali -, il sindaco di Secondigliano suda freddo: se don Gaetano si mette di traverso, le votazioni a Secondigliano saranno esplosive.
Con il sottoprefetto di Casoria e il capitano della Guardia nazionale il 20 ottobre, il sindaco va a far visita a don Gaetano, che accoglie la delegazione nella sua povera stanza da letto.
I tre hanno tanta paura e tante ragioni per chiedere a don Gaetano di non complicare loro la vita: ci sono problemi di ordine pubblico soprattutto da tener presenti, senza dire dei difficili rapporti con le nuove autorità centrali. Per quanto concerne i congregati don Gaetano dice che “queste sono cose che non ci appartengono”.
Il sottoprefetto gli chiede almeno di impiegare l’influenza dei suoi congregati sulla popolazione dando l’esempio di andare a votare e poco importa che votino contro. E don Gaetano: “Non voglio e non possono permetterlo”.
Il sottoprefetto dà di matto e comincia a minacciare, a insultare, a dire sconcezze. Gli altri due cercano di metterla sul ragionevole, di fargli capire che si tratta di una convenienza necessaria. Don Gaetano promette loro di scrivere ai propri superiori e di attenersi a quanto gli diranno. La riunione degenera: i tre continuano a insistere, ma non sanno più che pesci prendere, don Gaetano è uno che non ci impiega nulla per radunare l’intero paese e trascinarlo con sé. Lui ripete ancora qualche volta la sua posizione, poi si chiude in un assoluto silenzio. La stanchezza e la tensione lo fanno svenire.
Una situazione insostenibile, anche perché don Gaetano non è in grado di gestirla. La comunità si riunisce in assemblea plenaria con un gruppo di sacerdoti amici, residenti e operanti nei dintorni, e analizza la questione. La discussione è approfondita e si conclude con un inevitabile compromesso: si va alle urne, per evitare conseguenze pericolose al paese e alla Congregazione, e si dà voto contrario. Il giorno delle votazioni, la gente che sa bene a quali vessazioni sono stati sottoposti quei sacerdoti che vanno a votare, li imita e vota no.
Don Gaetano non ne sa nulla. Viene informato a elezioni concluse.
“Avete fatto male” commenta.
“Ma padre” gli fa notare suo nipote “non pensate ai danni che sarebbero derivati al paese e alla Congregazione?”
“Meglio farvi fucilare, che andarvi.”