Lo stile di governo
 
Un’organizzazione religiosa è complessa, come tutte le organizzazioni nelle quali interagiscono persone, strumenti, obiettivi, risorse, valori. Ma è complessa per ragioni diverse dalle altre organizzazioni. Una Congregazione religiosa offre dei servizi che non rispondono solo ai bisogni delle persone (venendo incontro alle loro deficienze conoscitive, operative, relazionali), ma rispondono soprattutto al desiderio profondo delle persone, a quel moto del cuore, dell’intelligenza e della volontà che le spinge a scegliere la vita come un compito, a cercare il significato dell’esistenza, a interrogarsi se non esista un Dio e se non valga la pena di credergli. Il desiderio dà alla nostra esperienza un assetto verticale (il bisogno è solo orizzontale) e però deve incarnarsi nell’esperienza quotidiana per non svaporare.
Per questo tutte le Congregazioni devono agire su un doppio livello: quello umano e quello religioso. Un paradosso dal punto di vista della teoria dell’organizzazione, secondo cui il core business (il prodotto o il servizio principale) di impresa deve essere unico, come unico deve essere il mercato di riferimento.
Questa annotazione non risulti forzata. La gestione di una Congregazione richiede una straordinaria abilità, che non può essere compensata – come in alcuni contesti sembra succedere – dalla buona volontà, dallo spirito di corpo e dalle forti motivazioni personali dei componenti. Anche per “costruire” il bene servono delle specifiche competenze direzionali,
tali da assicurare il raggiungimento degli obiettivi. Anche le
opere di Dio, dal momento che sono affidate alle nostre mani,
esigono di essere gestite efficacemente, secondo norme oggettive che armonizzino le attività che vi si svolgono con il senso e i significati che si perseguono. Diciamo questo perché ci
ha colpito lo stile con cui don Gaetano, rieletto Superiore generale a maggioranza assoluta, ha governato.
La prima sorpresa proviene dalla visibilità di cui ha saputo caricare il suo stile di governo. I suoi confratelli lo riconoscono, senza eccezioni, come “un ottimo superiore, ripieno
di carità, prudenza, umiltà, affabilità, dolcezza, apertura al
dialogo, compassionevole verso gli ammalati, esemplare per
la sua vita, ammirabile per la sua pazienza e zelante nell’esigere e promuovere l’osservanza delle regole”.
Il superiore formale diventa leader, come nel caso di don
Gaetano, quando riesce appunto a rendere visibile a tutti queste qualità del suo potere, qualità che assicurano autorità alla
sua funzione direttiva.
Il leader non è inaccessibile, come il capo, ma è presente, disponibile, in ascolto. Vive dall’interno l’organizzazione che presiede e ha sempre sottomano la situazione. Il che gli con-sente di non esagerare nei rimproveri (dal momento che riesce
a calcolare esattamente il peso della mancanza individuata) e
di non eccedere nell’approvazione, per ottenere consensi dai
collaboratori. Il capo incapace urla e sgrida, sia quando pensa
di mettersi dalla parte della ragione e sia quando ha paura di
vedere fallire il suo settore di competenza. Cerca l’approvazione dei suoi collaboratori come prova della sua capacità di governare, ma non valorizza le potenzialità dei suoi collaboratori, perché incapace di orientare all’obiettivo comune.
 
Don Gaetano ha invece proprio questa capacità. Non chiede approvazione personale, ma guida con chiarezza e determinazione i suoi collaboratori verso l’obiettivo condiviso. Non mette continuamente in discussione con loro la sua relazione, ma mira dritto allo scopo. E ricava di qui la sua autorità.
E quando un fratello gli rimprovera di non saper fare il Superiore (è un livello di confidenza difficile da gestire, ma che evidentemente don Gaetano sapeva trattare) gli ristruttura il problema in un attimo: fra Cosma Cristiano riteneva di essere stato offeso da un confratello e pretendeva che il Superiore lo castigasse; don Gaetano gli spiega che per battere qualcuno bisogna essere più santi di lui e che se di battere si trattava era dal buon Cosma che doveva cominciare.
L’abilità del leader sta proprio in questo: il conflitto tra i due era personale e dunque non incideva sulla vita della comunità; doveva quindi essere trattato come tale e risolto dagli interessati, non dal Superiore. Accollarsi i problemi degli altri non migliora l’immagine e la credibilità del capo, ma la confonde, la appanna. Nel caso specifico, accettare la richiesta, convocare gli interessati, vagliare la questione non avrebbe portato a nulla: l’unico modo per interrompere un litigio è che uno dei due litiganti la smetta. Non c’è ordine superiore che tenga.
Diverso è il comportamento del vero leader in caso di azioni e comportamenti che rischiano di mettere a repentaglio la vita e gli obiettivi dell’organizzazione. In casi del genere don Gaetano interviene decisamente e non esita a ricorrere all’espulsione se lo ritiene necessario. È la componente più difficile di ogni autorità e di ogni potere. quando si tratta di scegliere tra la salvaguardia dell’organizzazione e le persone. È interessante vedere come il Nostro ha risolto il problema, adottando la figura del padre.
 
 
Il paradosso del padre
 
Tutti riconoscono nello stile di direzione di don Gaetano la forte connotazione paterna: più che un Superiore maggiore è un padre.
Il biografo Giuseppe Russo descrive così questo stile paterno: “Quando viene a conoscenza di mancanze gravi, particolarmente contro la carità, la castità e l’obbedienza, interviene prontamente e, ritenendosi prima padre e poi giudice, ascolta le ragioni e le discolpe dell’accusato; poi se trova fondata l’accusa, al rimprovero fa seguire una punizione, mostrandosi in seguito indulgente se nota la volontà di pentimento; ma nei casi di pervicacia, dopo aver usato tutti i mezzi suggeritigli dalla prudenza e dalla carità, espelle il reo dalla Congregazione, senza cedere alla preghiera o alla raccomandazione di chicchessia”.
In un successivo passaggio, in cui tratta dei rapporti epistolari con i suoi figli spirituali, il biografo ci offre un’altra interessante sintesi della paternità di don Gaetano:
“In esse [nelle lettere, N.d.A.] afferma che “tutti formano la parte più cara del suo cuore” e li assicura che pensa a loro più che a se stesso, senza alcuna parzialità, essendogli ugualmente cari i vicini e i lontani. Perciò devon sentirsi spinti ad aprirsi a lui, con tutta confidenza, considerandolo “un vero padre”. E, da buon padre, si interessa della loro salute fisica, esortandoli a curarsi, e soprattutto di quella spirituale; infatti li consola e li tranquillizza in momenti difficili, a volte sostiene la vocazione insidiata, li anima a lavorare con purità di intenzione, senza abbattersi per le molte difficoltà o dicerie”
Quella del padre è oggi una figura in disarmo e l’interpretazione della paternità elaborata da don Gaetano cade proprio a proposito. Ci offre cioè una serie straordinaria di indicazioni per ridisegnare, in famiglia prima di tutto, ma anche in altri contesti, questa figura che è stata dominante nella nostra cultura per millenni e di cui abbiamo perso i connotati per la povertà culturale in cui ci troviamo a vivere.
A renderci un pessimo servizio è stato l’aver legato, in un’ottica puramente biologica, la figura del padre a quella della madre. Sul piano della generazione, la complementarità del padre e della madre è scarsa: la madre domina la gestazione ed è una ironica e recente illusione che essa sia dominata nella fecondazione. In realtà il legame che passa tra madre e figlio è tale da rendere praticamente superflua la presenza del maschio. A meno che non sia lui a scegliere il figlio.
La paternità deriva da una decisione, non da una funzione. Quando nasce, per la madre il figlio è ciò che aveva in grembo. Ma per il padre è una creatura sconosciuta, nuova. 0 è disposto all’incontro, rischiando il rifiuto, o rinuncia ad avere un figlio.
“Il padre è costruzione, è artificio: diversamente dalla madre, che continua in campo umano una condizione consolidata e onnipresente ai livelli che contano della vita animale. Il padre è programma – forse il primo programma – è intenzionalità, è volontà ed è quindi autoimposizione. Questa sua artificialità e, data la nascita “recente”, questa sua poca esperienza, portano con sé uno svantaggio inevitabile, come la mela il verme o la rosa la spina  Ma se ogni paternità è una decisione, ogni paternità richiede un’adozione, anche se il figlio già è stato materialmente e legittimamente generato dal padre”.
Il paradosso del padre sta in questo: che quando sceglie il figlio deve essere scelto dal figlio. E per quali motivi un figlio dovrebbe accettare un padre?
Perché il padre esce di casa, va al lavoro o in missione e poi torna per raccontare storie nuove, avventure di altri inondi, immagini di altri uomini. E così ti insegna a uscire di casa e a ritornare. Ti insegna il ritorno e ti aspetta. Il padre ti impedisce di disperderti, di perderti.
È fin troppo facile applicare allo stile della paternità di don Gaetano tutto questo. Sceglie i figli con accuratezza, esamina le loro qualità e le loro capacità, valuta le loro potenzialità, fornisce loro parole, conoscenze e competenze nuove (formazione), li cerca uscendo di casa, andando in missione, e li manda in missione, assicurando loro il ritorno. Li adotta, li forma, li manda e li aspetta. Un padre tanto più vero perché non fa da complemento a una madre naturale. Anche se alla figura della madre non rinuncia, introducendo nel sistema simbolico della sua Congregazione il “cuore” della Madre per eccellenza.
Don Gaetano si impone come padre sulla base di precise regole, che vuole siano condivise e rispettate. Conosce benissimo la precarietà della sua funzione, ma nello stesso tempo è abilissimo nell’armonizzare autorità e dialogo, tenerezza e forza, parola e ascolto, rimprovero e rinforzo.
Il rischio che corre ogni organizzazione è quello di perdere unità e coerenza, quello della dispersione delle sue risorse, soprattutto delle risorse umaiie, delle persone. Le tecniche per evitare un simile evento sono tante e collaudate, si va dal rinforzo delle motivazioni, alla formazione, ai premi in carriera e in denaro, all’introduzione di nuove tecnologie. Oggi è chiaro a tutti che un’organizzazione non regge se non si lega a un sistema di valori.
Don Gaetano diceva: “lo adopero tutti gli sforzi affinché tutto procedabene e regolarmente nella Congregazione; ma quando sorgono difficoltà insuperabili, me ne vado dietro l’altare ove sta il mio Gesù Sacramentato, congiungo le mani davanti a lui e, con franchezza, gli dico: “Gesù mio, fa’ Tu quello che io non posso fare” “.
Il ricorso al consulente è necessario e don Gaetano ne ha uno di assoluta affidabilità.
A noi interessa concludere questa prima serie di note sulla leadership del Fondatore dei Missionari dei Sacri Cuori, osservando come il vero leader abbia il senso dei suoi limiti e la chiara consapevolezza che non tutto dipende da lui. Ci sono delle variabili incontrollabili, soprattutto per quanto concerne le persone, che derivano dai rapporti che l’organizzazione instaura con il mondo che la circonda. A questo livello l’abilità e la funzione del leader non hanno più possibilità di incidere dall’interno sul futuro del l’organizzazione. Il leader deve guardare fuori e fare in modo di integrare al meglio la sua organizzazione con il contesto in cui opera.
Una Congregazione religiosa instaura rapporti con il mondo esterno attraverso i tre canonici canali di comunicazione: la povertà, sul piano economico; la castità, sul piano affettivo; l’obbedienza, sul piano del potere. Il successo storico della vita religiosa sta proprio in questa originale forma di scambio che corrisponde alle tre contraddizioni irrisolte della nostra vita sociale: la ricchezza che produce povertà, la sessualità che produce sfruttamento; il potere che produce schiavitù.
 
 
Le calze di canapa
 
Nel modo di intendere i voti religiosi, don Gaetano paga l’inevitabile tributo alla mentalità del suo tempo, con delle significative contraddizioni, che ce lo rendono simpatico.
Essendo una persona intelligente, sa benissimo di essere figlio della “povera zi’ Maria e del povero zi’ Pasquale” e dunque evita il salto di classe, per non cadere nel ridicolo e per non tradire le sue origini. Potrebbe arricchirsi, il che convincerebbe una rara minoranza di benestanti ma gli farebbe perdere il contatto con la maggioranza della sua gente.
Nato e cresciuto tra i poveri, quando diventa ‘o Superiore non intende cambiare il suo stile di vita: la tonaca è una scolorita sottana di teletta dozzinale, che non c’è verso di fargli cambiare. La signora Luisa Riccio gli regala una zimarra di stoffa appena un po’ più fine e non la mette mai: alla sua morte la restituiscono alla donatrice. Un’altra signora Riccio, Rachele, gli vuole fare un paio di calze e ci rimette ben tre modelli prima di azzeccare quello giusto: calze di canapa, come quelle dei contadini, che pungono e non tengono caldo nemmeno d’estate. Domenico Barbato, sarto, pensa di fare il suo dovere di buon cristiano confezionandogli una tonaca appena decente. Si prende le sue: “Tutto quel denaro si poteva spendere per i poveri o per Gesù Sacramentato”.
Siamo al limite dell’arroganza se non fosse chiaro a tutti che il suo modo di intendere la povertà era funzionale alla sua missione: chi va per la strada – lui continua ad andare a Napoli rigorosamente solo a piedi – veste senza ricercatezze, ha un bagaglio leggero, non ha bisogno di stanze arredate per dormire (la camera di don Gaetano si avvicina di più all’essenzialità della tenda che a quella della stanza da letto, povera quanto si vuole). E mangia poco, per stare leggero. Si accontenta di un pasto solo al giorno, normalmente la sera tardi, e se il cuoco ha già chiuso la cucina si arrangia con un po’di pane e acqua. Cena insufficiente per un uomo della sua stazza.
Lo vanno a visitare prelati importanti, autorità civili di prestigio e devono prendere atto della sua strepitosa semplificazione. La povertà riduce di molto la complessità della vita, ti abitua all’essenziale, non ti intorpidisce come la ricchezza e l’obesità.
 
O Superiore sa benissimo che deve dare il buon esempio. Ma sa soprattutto che deve essere pronto, flessibile, attento, leggero, essenziale. 1 generali che guidano le guerre dai palazzi del potere prima o poi le perdono, quelli che le combattono a fianco dei loro soldati le vincono.
La povertà religiosa è modestia del vivere, senso del limite, come scrive nelle Regole don Gaetano che vuole dotare i suoi congregati di “una povera mensa, formata da cibi ordinari e frugali, di una povera veste, di una povera stanza (senza pitture, arnesi di pregio e tutto ciò che sa di secolo) e di un povero letto”.
Sembra un progetto all’insegna della rinuncia se non fosse la tecnica più efficace per diventare i padroni di tutti i beni: il vantaggio dei poveri sta nel fatto che possono anche diventare ricchi; lo svantaggio dei ricchi è che possono solo diventare obesi.
In tema di castità don Gaetano ripropone la classica contrapposizione tra corpo e spirito di una certa spiritualità per noi oggi datata. Dice ai suoi: “Noi siamo uomini ma i popoli ci credono angeli e come tali dobbiamo vivere. Perciò dobbiamo mortificare tutti i sensi, specialmente gli occhi che sono le porte per cui entra nell’uomo il peccato, se vogliamo mantenerci puri come un cristallo che si macchia con il solo fiato”.
lo non credo che i napoletani siano tipi da considerare angeli i preti. Credo invece che sappiano valutare correttamente se un sacerdote rispetta meno la sua scelta di vita. Don Gaetano vive nel suo paese di origine, conosce tutti, uomini e donne, e tutti hanno in lui fiducia e confidenza. Non può fare il misogino, perché non glielo permettono la sua origine e la sua sensibilità: è riservato, discreto, prudente. Con le donne taglia corto più per risparmiare tempo che per non correre rischi. Ci sono donne che l’hanno visto nascere, donne con cui è cresciuto, donne che lo stimano e cercano di aiutarlo. Uno come lui non si taglia fuori dal mondo: vive serenamente la sua vita e sa benissimo quanto vale l’altra metà del cielo.
È però convinto che il corpo sia “un animale che non vuole essere troppo accarezzato, altrimenti tira calci”. La sua penitenza è quotidiana: dorme poco e spesso non disfa nemmeno il letto, si alimenta quel tanto che gli serve per stare in piedi e trova sempre buono tutto quello che gli mettono davanti a tavola. E guai a riservargli una pietanzina speciale. Delle sue razioni ne avanza sempre un po’, che riserva ai gatti. Ce n’era un certo numero che avevano imparato a inseguirlo quando vedevano che si dirigeva verso il refettorio. Diciamo insomma che il cibo non gli interessava.
Ma non appena un confratello si ammalava non si dava pace: doveva essere curato, ricevere tutte le attenzioni e se, mentre celebrava la Messa, gli veniva in mente che c’era in infermeria qualcuno, interrompeva il rito – lui che quando celebrava pareva in estasi – per dire all’inserviente di mandare l’infermiere a vedere come stava. Quanta attenzione per la salute dei suoi confratelli si legge nella sua corrispondenza. Riteneva eccessivo per sé il brodo di carne, ma ai suoi figli doveva essere dato tutto il necessario.
Era così esemplare la sua vita religiosa che alcuni esponenti della Congregazione dei Vescovi e Regolari hanno pensato bene di inviarlo presso qualche comunità un po’ alla deriva, per riportarla sulla giusta rotta. Pare che siano diverse le comunità religiose che devono a lui il ripristino della genuina vita comune e della pratica dei voti evangelici. A suo tempo, ha trovato resistenza solo in un monastero di Aversa: una suora gli sobillò contro le consorelle, nel tentativo di difendere lo status quo… Don Gaetano, dopo aver tentato l’impossibile, dovette passare alle maniere forti. Un giorno parlò così alla comunità: “C’è tra voi chi si oppone al ripristino della vita comune. Costei avrà dal Signore una tremenda lezione”.
La contestatrice muore qualche giorno dopo e le consorelle lo prendono come un segno del cielo. La coerenza adamantina di don Gaetano nella pratica della vita religiosa deriva dalla profonda convinzione che, in quanto prete e in quanto religioso, deve fare la volontà di Dio. In altri termini, è sua convinzione di base che l’obbedienza alla volontà di Dio rappresenti l’essenza della vocazione sacerdotale e religiosa.
Questa volontà si esprime attraverso le decisioni dei superiori, il cui valore non dipende dal fatto che siano giuste o sbagliate ma dal fatto che interpretano la volontà di Dio. Equazione sempre difficile da capire e per noi oggi addirittura paradossale: la possibilità fin troppo evidente che un superiore possa sbagliare rischia di compromettere la credibilità della volontà di Dio. Ma così non è. Nella vita religiosa sia chi comanda, sia chi obbedisce ha un unico obiettivo da perseguire, quello di capire e fare la volontà di Dio. La divisione dei compiti, nella vita religiosa, non è divisione del potere: anzi, chi obbedisce ha maggior potere di chi comanda, perché si adegua alla volontà del Padre senza copertura, per pura e semplice adesione filiale. Per convinta cessione della propria volontà al progetto di salvezza del Padre. È così che ragiona don Gaetano.
“Voi non siete più vostri – scrive in una lettera indirizzata ai suoi figli – ma di Colui a cui vi consacraste ai piedi dell’altare; dovete negare perciò la vostra volontà in tutto e per tutto, in guisa tale che nei vostri pensieri, nelle vostre parole, nelle vostre opere, nei vostri patimenti, si ritrovi tutta la volontà di Dio e niente della vostra.”
Prospettiva piuttosto rigida, che Gaetano Errico spiega così: “Sua divina maestà non vuole i sacrifici della nostra propria volontà; ma comanda l’ubbidienza della sua volontà”.
 
Il nodo dell’obbedienza religiosa sta nella rivoluzione del sacro operata da Gesù. Con la sua morte e risurrezione Gesù mette la parola fine all’epoca del sacrificio, liquida il dio avido di sacrifici e promuove il Dio Padre. Obbedire a un padre non significa rinunciare alla propria volontà ma aderire al progetto per cui lui ci ha messo al mondo. E il progetto di Dio consiste nella liberazione completa della nostra umanità.
Quando don Gaetano viene calunniato presso i suoi superiori diretti, che per un momento sembrano dar credito alle false informazioni ricevute, la sua prima preoccupazione è quella di chiarire la sua posizione: io mi sono comportato secondo obbedienza e se oggi i miei superiori mi dicono “che l’opera da me iniziata non dovrà continuarsi” chiedo solo il tempo di andare a casa a prendere le chiavi per consegnarle.
Eccesso di remissività? Relazione debole con il proprio progetto? Niente di tutto questo. Concretezza, invece, e chiarezza di idee: come fai a portare avanti un’opera di evangelizzazione se chi ha ricevuto il mandato diretto non è d’accordo? Per quanto la Chiesa nella sua gerarchia possa sbagliare (e ha sbagliato, e forse continua a sbagliare, se l’attuale Sommo Pontefice avverte così impellente il bisogno di chiedere perdono) resta la titolare della missione evangelica. È a questa missione che occorre obbedire, dice don Gaetano, “Prontamente, cioè senza replica, ciecamente, senza conoscere le ragioni; costantemente, cioè senza interrompere e con dolcezza di cuore, unendo cioè al rispetto esterno, interna riverenza e amore”.
Quegli avverbi sono duri per la nostra sensibilità e qui sarebbe troppo lungo analizzare quanto invece siano pratici e utili, non solo spiritualmente. Abbiamo comunque un riscontro storico che ci dice come la vita religiosa, cosi come si è espressa nella pratica della povertà, della castità e dell’obbedienza, abbia ottenuto uno straordinario successo nella Chiesa e una straordinaria credibilità presso la società civile di tutti i tempi. Impossibile attribuire questo risultato a quella serie di presunti “no” che pensiamo siano i voti religiosi. Dalla negazione non deriva mai nulla di buono. Quei “no” in realtà sono dei “sì”, sono delle scelte, sono dei progetti, sono degli stili efficaci di vita individuale e comunitaria. Che raggiungono cioè ‘io scopo per cui sono stati inventati.
La storia della Congregazione, fondata da don Gaetano, lo conferma ampiamente. Non solo. Dal momento che rientra nel grande filone della storia della vita religiosa, contiene anch’essa in maniera del tutto originale una lezione importante. L’unico comportamento che ci impedisce di scivolare nel fanatismo religioso o ideologico, nel consumismo distruttivo che produce povertà disperata e ricchezza inutile, nel sessismo o nella sessuofobia, nel settarismo religioso o nel tribalismo etnico è la carità. Questa è la ragion d’essere della vita religiosa.
Non la regola, che trasformerebbe la vita religiosa in un semplice esercizio etico dell’estremo, di stampo buddista. Noti il potere ecclesiastico, che finirebbe con il depauperare la ricchezza della vita religiosa, nei suoi molteplici aspetti. Ma la carità, come evangelico fondamento di ogni progetto di vita e di ogni missione e come modo di vivere le relazioni con Dio e con gli uomini.
Don Gaetano direbbe, che la vita in genere e la vita religiosa in specie è sempre e comunque una questione di cuore.