Il volto della Donna
 
Don Gaetano nutriva una particolare devozione alla Madonna: la Donna per eccellenza, la cui figura rappresenta le mille facce del miste-ro e della femminilità, indissolubilmente collegate. Tra queste, don Gaetano ne preferisce tre: quella dell’Immacolata che occupa un posto di rilievo nella vita spirituale della sua Congregazione, fin dagli inizi e a onore della quale “O’ Fondatore” fece eseguire dallo scultore Giuseppe Verzella una bellissima statua; quella del S. Cuore di Maria, che rappre-senta la struttura portante del suo servizio alla Chiesa, assieme al S. Cuore di Gesù; e quella dell’Addolorata, la versione da lui preferita fin da ragazzo, per l’infinita dolcezza di quel dolore, vissuto come mistero di salvezza.
E proprio l’Addolorata è la protagonista di una vicenda che ha se-gnato la vita di don Gaetano, quella del suo paese e quella della Chiesa.
Ogni anno don Gaetano faceva gli esercizi spirituali nella casa ma-dre dei Padri Redentoristi a Pagani (Salerno). Siamo a una trentina di chilometri da Secondigliano, distanza da lui regolarmente coperta a pie-di. L’appuntamento – ripetuto annualmente nel mese di ottobre, dal 1816 in poi – aveva due motivazioni: quella di andarsene dal paese in occasione delle chiassose celebrazioni  dei santi patroni Cosma e Da-miano e quella di respirare un po’ di quell’aria di chiostro, di cui aveva sempre avvertito la nostalgia, perché l’idea di farsi religioso non lo ha abbandonato mai. Con una predilezione per la Congregazione di S. Al-fonso Maria de’ Liguori, come si è detto.
A partire dal 1818 o 1819, gli esercizi spirituali di don Gaetano di-ventano, con sua sorpresa, anche un appuntamento con una misteriosa suggestione. Lui parla di “efficace sentimento”. Noi potremmo dire “buona idea”. I fatti dicono trattarsi invece di un contatto diretto con quella dimensione profonda della realtà che si collega alle radici divine del mondo e della storia, da cui derivano gli eventi importanti e i pro-getti più straordinari. È una  regione frequentata dai mistici e segnata dalle tracce inequivocabili di Dio nella nostra vita, tracce che essi, i mi-stici, sanno benissimo interpretare.
Come che sia, a don Gaetano viene fatto capire, a più riprese e in maniera sempre più chiara, che si deve occupare di due cose: di fondare una Congregazione nuova, con “opere tutte di amore” destinate a pro-muovere il bene delle anime, mediante le Missioni al popolo, le istru-zioni dei bambini nella fede, il catechismo agli adulti e la pratica delle opera di misericordia spirituale e corporale; e di erigere in Secondiglia-no una chiesa in onore dell’Addolorata, come prova concreta, che il progetto viene da Dio.
A fargli da messaggero è lo stesso S. Alfonso, che gli si presenta più volte, mettendolo in difficoltà, dal momento che gli proponeva di fon-dare una Congregazione in concorrenza con la sua, che operava già a pochi chilometri di distanza. Un doppione, difficile da capire oltre che da far accettare dalle autorità religiose e civili. E però, a dispetto della prudenza e dell’attendismo, seguito ai primi contatti, le indicazioni si fanno di anno in anno più precise e urgenti, per cui la prudenza di don Gaetano e del suo parroco, don Vitagliano, doveva lasciare il posto  al-l’azione.
I due sacerdoti avevano testa sul collo e piedi per terra. Nessuno dei due era propenso a credere a emozioni e intuizioni passeggere e però c’era poco da discutere: anche  il direttore spirituale di don Gaetano, il redentorista P. Luigi Rispoli, dopo aver consigliato preghiera e attesa, decide che quello è il volere di Dio.
Il “volere di Dio” è materia esplosiva nelle mani dei teologi, dei di-rettori di spirito, dei santi e dei semplici fedeli. È come il buon senso che tutti credono di avere e di conoscere e che – fatti alla mano – non tutti hanno e conoscono. Al grido di “Dio lo vuole” si sono compiute imprese eccellenti e crimini indicibili.
Ma se il “volere di Dio” entra in azione in quella terra e in quella cultura particolarmente recettive e reattive proprie dei napoletani ne de-rivano effetti strepitosi. Don Gaetano non può affatto rinunciare a que-sta sua seconda pelle: la sua prudenza, la sua pazienza, il suo spirito di sacrificio mentre consentono la realizzazione dell’impresa finiscono con l’alimentare l’emotività e la passione popolare, portando al calor bianco il clima di tutta Secondigliano.
In attesa di indicazioni più precise, don Gaetano nel 1821 chiede al-la marchesa di Pietramelara se gli vende un certo terreno, in centro del paese. Ma c’è di mezzo la figlia della nobildonna, la signorina Clemen-tina, che si deve sposare e che ha in dote quel terreno. La ragazza però non pare aver fretta e continua a rimandare la data del matrimonio al punto tale che don Gaetano pensa di rivolgersi al Comune per ottenere il terreno necessario alla costruzione della Chiesa.
Inizia lo scontro.
Il cancelliere comunale di Secondigliano è un carbonaro, un certo Carlo Andrea Barbati, più cretino che mangiapreti, il quale riesce a ma-novrare il Consiglio, in partenza favorevole alla concessione, in modo tale che neghi l’autorizzazione. Il sindaco finisce in minoranza e deve presentare le sue scuse a don Gaetano, il quale però contesta la validità della decisione: il Barbati non poteva, per legge, svolgere le funzioni di segretario comunale. Se la delibera passava, don Gaetano era pronto a difendere le sue ragioni più in alto.
Il povero sindaco rifà la riunione: i Decurioni concedono il terreno, ma non quello richiesto da don Gaetano. Pur di iniziare i lavori, il sa-cerdote accetta. È lì che sta per lanciare l’idea ai suoi compaesani, che scoppia una rissa incredibile tra due opposte fazioni della Congrega del SS. Sacramento. La baruffa dilaga in un amen in tutto il paese ed è tale lo scompiglio che parroco e don Gaetano mettono da parte il progetto della chiesa e si impegnano a sedare gli animi. Non è dato sapere la causa del conflitto, se ne conosce però la durata: fino al 1825 la tensio-ne  a Secondigliano è da coprifuoco.
Non si sa se per effetto del tempo trascorso o dell’Anno Santo, este-so dal Papa a tutto il mondo anche per il 1826, solo nella domenica di Pentecoste dello stesso anno don Gaetano riesce a comunicare la sua i-dea ai compaesani.
 
 
La festa e la guerra
 
La regia della giornata – 14 maggio – è abile: il parroco don Vita-gliano crea la giusta suspence avvertendo che don Gaetano ha una “di-vina ambasciata” da fare. Sorpresa e curiosità producono immediata-mente la leggenda urbana: don Gaetano se ne va da Secondigliano, va a farsi monaco, ci lascia. La gente reagisce di impulso e si accalca in chiesa nel primissimo pomeriggio: ci sono anche forestieri e gente pro-veniente dai paesi vicini.
Alle tre pomeridiane don Gaetano stenta a farsi largo per raggiunge-re il pulpito. Il suo discorso merita di essere citato, soprattutto per gli effetti di persuasione e di fascinazione che ottiene.
– È volontà di Dio – dice don Gaetano –  che venga costruita in Se-condigliano una chiesetta all’Addolorata. Ma voi conoscete che io sono povero e che me ne mancano i mezzi. Sarete perciò voi a fornirmeli, i-mitando la generosità del popolo ebraico che concorse  con oro, argento e altre ricchezze alla costruzione del suo tempio e a renderlo il più son-tuoso possibile. Considerando che in quel tempio non c’era Dio e nel nostro ci sarà, maggiore dovrà essere la vostra generosità. Oh quanto sarà utile per voi, avere tra le vostre case e strade, una chiesa dedicata ai Dolori di Maria Santissima! Aiutatemi dunque a realizzare un’opera co-sì bella e così grande!
Difficile dire se a far scattare la reazione popolare sia stata la dotta citazione, strategicamente accompagnata dalla indicazione di quello che serviva – oro, argento e altre ricchezze – o se sia stato l’appello alla ge-nerosità. Più probabilmente don Gaetano è riuscito nell’impresa di emo-zionare il suo compaesani e di farli passano all’azione offrendo loro la figura protettiva ed emotivamente forte della Madonna dei dolori. Oggi la persuasione è prodotta dai messaggi veicolati dai divi dello spettaco-lo, della canzone, dello sport. Ieri erano le figure del santo  o la figura della Madonna. Figure protettive, ma anche figure che salvaguardavano la dignità e l’identità del gruppo sociale.
Non si potrebbero spiegare diversamente i fatti successivi all’annun-cio, capitati in quegli anni a Secondigliano.
La risposta in tempo reale che don Gaetano ottiene è strepitosa: la gente svuota le tasche, gli consegna catenine e anelli d’oro, stacca dai vestiti i bottoni d’argento, gli mette in mano pettinini d’argento e quanto ha di valore tra le mani. La previsione del parroco di raccolta per 10 du-cati viene superata alla grande: se ne raccolgono 500 di ducati.  A se-guire, giorno dopo giorno, le offerte crescono e si può prudentemente pensare di avviare i lavori.
Don Gaetano non è affatto convinto del terreno ricevuto dal Comu-ne: lui sa che la Madonna vuole la sua chiesa in via Fosso del Lupo, proprio in quel terreno di proprietà comune dei coniugi Clementina Palma e Diego D’Afflitto, dei fratelli Michelangelo, Raffaele e Aniello Franco e del signor Saverio Tramontano. Glielo dice e loro, tutti d’ac-cordo, glielo regalano.
È un’area che gode di pessima fama: abbandonata al degrado e alle sterpaglie, occupata da abitazioni fatiscenti che servono da rifugio ai clienti del vizio e della malavita, frequentata da “persone di cattiva condotta”, come si legge nelle cronache del tempo, un vero e proprio “luogo di peccato”. Un luogo vagamente infernale, in cui di notte – di-cono testimoni diversi – circolano fiammelle vaganti, impiegate forse per “bruciare ciò che di nefando s’era là consumato”.
Località tipica del miracolo e dunque del santuario, in linea con la più diffusa tradizione mariana.
La scelta non raffredda la partecipazione popolare. Don Gaetano organizza, con il permesso del Sottointendente di Casoria, una processio-ne per il 21-23 maggio, allo scopo di onorare la Madonna e di racco-gliere ulteriori fondi e ottiene ancora una volta una risposta straordina-ria: la gente consegna denaro, oro, argento, vestiti, tessuti lavorati in paese, lino, ferba, mussolina, ossi e ogni sorta di merce che abbia un minimo di valore commerciale.
Il Parroco si sente in dovere di invitare alla moderazione, ma gli ri-spondono che sono pronti a togliersi il pane di bocca. Ormai la chiesa dell’Addolorata è diventata una bandiera.
E come succede spesso dietro le bandiere si schierano le truppe e le truppe partono per andare a fare la guerra.
Il carbonaro Barbati organizza la controffensiva contro il pazzo sca-tenato (don Gaetano) e la bestia (il parroco). Ha gioco facile a guada-gnare alla sua causa i capi congrega di Secondigliano: tra fondamentali-sti ci si capisce sempre.
La prima mossa è la calunnia: le elemosine sono frutto di estorsione e di ricatto; don Gaetano ha approfittato della ingenuità popolare per sponsorizzare la costruzione non necessaria di una nuova chiesa; ce ne sono già quattro di chiese e i preti mancano; don Gaetano ha minacciato i fedeli di scomunica e di dannazione eterna.
Propongono che il denaro raccolto sia devoluto alla “Cassa della pubblica beneficienza”, gestita dal Comune. Insinuano, infine, che don Gaetano sta arricchendo la sua famiglia, con il ricavato delle elemosine, Là dove si dimostra quanto l’imbecillità sia creativa.
Il paese comincia a surriscaldarsi e girano voci che per fare la festa al Barbati non ci vuole proprio niente. IL parroco e don Gaetano sanno benissimo come possono andare le cose. Decidono di restituire agli o-blatori le offerte ricevute.
Ma il Barbati interviene: E chi controlla che tutto sia trasparente? (Anche allora la domanda di trasparenza veniva dai mestatori di profes-sione!). Don Gaetano e il Parroco pensano allora di rivolgersi al Sot-tointendente (un certo cav. Del Vecchio) che aveva concesso la licenza per la raccolta delle offerte. Ma una delegazione di cittadini arriva in canonica a protestare: le offerte sono state date alla Chiesa e non alle Casse dello Stato. Alla chiesa devono rimanere.
Argomento pericolosissimo: sulle tasse  e i soldi pubblici i governi di allora dovevano affrontare sommosse a ripetizione. A Secondigliano non mancava che la miccia. Gaetano tranquillizza tutti e si impegna formalmente a parlare con i suoi Superiori religiosi per la costruzione della Chiesa.
Parte immediatamente per Napoli per essere ricevuto dal Segretario del Clero. Negli stessi momenti, caso vuole, che un gruppo di dimo-stranti incroci per la strada il Barbati. Al carbonaro di complemento viene spiegato piuttosto vivacemente come stanno le cose, che conside-razione si ha di lui e anche quale considerazione lui dovrebbe avere di se stesso e, allo scopo di schiarirgli al meglio le idee, un donnone che te lo raccomando prende per il bavero il Cancelliere comunale e lo mal-mena senza risparmio di interventi manipolatori e senza censure lessica-li.
Glielo tirano fuori dalle mani a fatica: pallido come un cencio, da carbonaro che era, il Barbati si rifugia in casa di amici. Il tempo di ri-mettere in circolo il veleno che ha in corpo e si fionda a Napoli, dal Se-gretario del Clero, anticipando don Gaetano e accusandolo di istigazio-ne a delinquere, sommossa e chissà cosa ancora. Al Segretario basta va-lutare la spiegazione di don Gaetano per decidere in suo favore. Il Bar-bati non può giocare altra carta che quella della querela contro quella brava donna che aveva, inutilmente, tentato di raddrizzarlo.
Il giorno del processo nel tribunale di Casoria c’è la folla: tra accusa-ti, accusatori, testimoni e pubblico pare di essere dentro una sceneggia-ta. Volano insulti e minacce e si rischia la rissa.
Il parroco e don Gaetano devono tentare a ogni costo di allentare la tensione. Chiedono per l’ennesima volta al Barbati di ritirare la querela per arrivare ad una soluzione amichevole. Il farabutto accetta ad una condizione: che ritirino la richiesta di costruzione della nuova chiesa. I due sacerdoti subiscono il ricatto: non possono permettere che in paese si scateni la guerra per congreghe.
Ma il ricatto scatena la rabbia popolare: i secondiglianesi non sono affatto disposti a vedersi privare della loro chiesa e della loro Madonna da una rivoluzionario da strapazzo. Loro sanno benissimo come si fan-no le barricate. E lo sa anche il Sottointendente, che chiama a rapporto tutte le autorità civili e religiose, i capipopolo e i capicosca mettendoli bene in guardia: se i disordini continuano, i laici finiscono in galera, il parroco viene sospeso e don Gaetano esiliato.
E la chiesa non si farà mai. Giura il poveretto.
Pochi giorni dopo chiamano don Gaetano al Commissariato di Polizia. Gli fanno firmare un impegno formale di non parlare mai più della costruzione della Chiesa e gli consegnano un’ordinanza che lo obbliga a depositare in una “Cassa comune”, collocata nella casa del parroco, tut-to le offerte ancora in  suo possesso e custodite in casa sua. La cassafor-te dovrà essere chiusa con tre chiavi.
Parroco, sindaco di Secondigliano e don Gaetano chiedono allora u-dienza all’Intendente di Napoli, sicuri di trovare giustizia. Ma vengono preceduti dal Sottointendente di Casoria che li mette in pessima luce a-gli occhi del superiore. IL quale li riceve con freddezza e li congeda quasi subito, con una vaga promessa. Nella prima riunione del suo Consiglio, fa passare la sua volontà: niente permesso di costruzione.
 
 
Alla ricerca di un volto
 
Ottobre 1826. Don Gaetano se ne va a Pagani, dai suoi amici Reden-toristi, per gli Esercizi Spirituali. Ma non trova il P. Rispoli, trasferito a Roma e se ne torna a casa. Il suo parroco lo consiglia di andare a fare gli esercizi dai gesuiti, che hanno da quelle parti una casa destinata a questo servizio.
Viene accolto con amicizia e presentato al P. Provinciale, a cui rac-conta la sua incredibile vicenda. Il gesuita intuisce il valore dell’uomo e gli fa la proposta: venga da noi, non c’è problema. Don Gaetano vuole solo essere sicuro che si tratta della volontà di Dio. Chi lo potrebbe ras-sicurare?
Viveva da quelle parti un celebre abate Don Angelo Scotti, la cui fama di saggezza, di santità e di cultura, gli procurava notevole lavoro: in casa sua c’era un via vai di prelati, aristocratici, notabili e professio-nisti, ministri e principi che avevano bisogno di consiglio e di direzione; ma l’ottimo sacerdote non dimenticava le esigenze del popolo più sem-plice e impiegava ore e ore nel catechismo ai bambini, nell’istruzione religiosa degli universitari, nella visita alle carceri e agli ospedali, senza dimenticare i tuguri della miseria e della disperazione della Napoli di allora. Era la persona giusta per avere un parere fondato: anche il pro-vinciale dei Gesuiti ne era convinto.
Don Gaetano si presenta e racconta la sua storia. Il santo sacerdote è preciso e categorico: “Torna a Secondigliano. È là che Dio ti vuole”.
Torna in paese e trova delle novità. I suoi fans hanno coinvolto l’ar-civescovo, il card. Ruffo, che da bravo combattente si schiera con chi sa stare sul campo di battaglia. Partono dal suo ufficio due Relazioni, una al Ministro degli Interni e una a quello degli Affari Ecclesiastici. In esse il cardinale difende e loda l’operato dei suoi due sacerdoti – il parroco don Vitagliano e don Gaetano – e si dice favorevole alla costruzione della chiesa.
La documentazione passa alla Consulta di Stato. Assieme ad essa ar-rivano anche le calunnie e i veleni degli oppositori. I Consultori danno voto favorevole ma ritardano di otto mesi la decisione finale per smorzare l’effetto delle calunnie e smontare i cavilli giuridici messi in piedi dagli avversari. Il Ministro comunica il risultato al Cardinale, che la fa conoscere a don Gaetano solo a metà ottobre.
Il 13 dicembre 1827 si fa gran festa a Secondigliano per la posa della prima pietra della nuova chiesa. I lavori partono il 2 gennaio 1828.
Quelli di Secondigliano che stanno in piedi ci sono tutti: chi mette a disposizione il carretto, chi il cavallo e chi le braccia; chi porta materiali edili e chi presta la sua opera gratuita. Ci sono mamme che portano sas-si e bambini in braccio. Giovani che ci danno dentro a trasportare acqua e materiali vari. Tra tutti don Gaetano, con quel fisico da …muratore, che non si concede un attimo di pausa e che pur di accelerare i lavori ricorre al miracolo.
Le tecnologie disponibili sono quello che sono e tra carrucole, argani  e forza di muscoli si cerca di far fronte alle necessità costruttive. Un giorno mentre si sta sollevando una grande pietra istoriata da collocare sull’architrave della porta operai e aiutanti si accorgono con terrore che la fune maestra si sta velocemente sfilacciando. Pochi attimi e si spac-cherà in due. La paura blocca tutti. Don Gaetano li tranquillizza: sale sua una scaletta, rinforza con un fazzoletto la corda sul punto in cui sta per rompersi e ordina: Ora, tirate!
Gli operai con il cuore in gola eseguono. Il blocco sale fino alla po-sizione giusta per la sistemazione. Si grida al miracolo, ma don Gaetano è già fuori scena.
La chiesa viene benedetta il 9 dicembre 1830.
A ricordare la dedicazione della chiesa è un grande quadro dell’Ad-dolorata che viene collocato sull’altar maggiore. Ma don Gaetano ha una sua idea nascosta da realizzare: nel 1835 commissiona a Francesco Verzella, una valente scultore napoletano, una statua dell’Addolorata, da lui stesso progettata.
L’artista ascolta attentamente le specifiche artistiche ed espressive che don Gaetano vuole e lo rassicura. Ma alla prima prova il volto della Madonna, perfetto e dolcissimo, non soddisfa il committente. Ciò che lui vuole è qualche cosa d’altro. È evidente che ha dentro di sé un’im-magine difficile da descrivere, ma reale, a lungo frequentata, vissuta e amata. Il povero Verzella si danna l’anima per accontentarlo, rifacendo e correggendo per ben quindici o sedici volte, fino quasi allo scoramen-to. Sta per cedere e rinunciare. Un ultimo ritocco e poi comunque vada è deciso a non metterci più le mani.
E finalmente don Gaetano, emozionato fino ad arrossire, si ferma in-cantato: È proprio lei. A che cosa corrispondessero quelle splendide fat-tezze e quella espressione intensa non è dato sapere. Don Gaetano cer-cava la Madonna dei suoi sogni, delle sue visioni, quella che era sempre a fianco di S. Alfonso, quando questi gli parlava dei progetti da realiz-zare. Una madonna del dolore e dell’amore colta nel momento in cui, ai piedi della croce, sta aspettando che le consegnino il Figlio o sta osser-vando le sue braccia vuote perché glielo hanno sottratto per la sepoltura. L’attimo della solitudine, in cui la scomparsa della persona amata porta al massimo l’amore e il dolore e solo una donna può capire che si tratta dell’inizio di una nuova vita.
La Madonna di don Gaetano diventa la Madonna di tutti i secondi-glianesi. La figura chiave durante le epidemie di colera del 1836, 1854, 1884 e dell’eruzione del Vesuvio del 1854-1855 e del 1906. Parte inte-grante della storia, della cultura e della tradizione oltre che della fede di Secondigliano, a lei viene attribuito il merito di aver salvato il paese dall’eruzione del 1906 come dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Secondigliano fa un tutt’uno con Capodichino, che ha, e du-rante la guerra aveva, uno degli aeroporti più importanti d’Italia.
L’Addolorata e don Gaetano hanno segnato profondamente il territo-rio e la vita di questo paese alle porte di Napoli: essi rappresentano una specie di sistema integrato di assistenza e di fede.
Tra i tanti episodi tramandati quello, don Gaetano vivente, che ri-guarda una donna di Arzano. Arriva un giorno davanti a don Gaetano. urlando che vuole sua figlia, che gliela devono dare. Don Gaetano cerca di calmarla e di capire che cosa sta succedendo. Ma non c’è modo di tranquillizzare quella poveretta. “Chiedila alla Madonna – le dice – vai a casa, chiamala e vedrai che tornerà”. La donna stenta a convincersi. Ma poi si decide, rientra ad Arzano e comincia a chiamare la figlia.
Le risponde finalmente una voce flebile, che viene da un fosso puz-zolente: da tre giorni la bambina era finita là dentro. Si salva. La porta-no a ringraziare don Gaetano e lui la conduce in chiesa. La ragazza ha  un sussulto: “È Lei”, dice.
Nella figura della Madonna c’erano le fattezze di un volto a lei noto: quello di una donna, vestita di nero, che la guardava con occhi materni mentre giaceva in quel fosso.
Quella figura ormai appartiene all’immaginario della gente di Secon-digliano, grazie all’opera di don Gaetano Errico. Che egli abbia voluto assicurare alla memoria dei suoi concittadini il volto della Donna non è operazione da poco. Là dove l’identità individuale e sociale viene siste-maticamente messa in discussione dalla fatica di vivere, dal rischio del-la sopravvivenza, dalla povertà e dall’emarginazione, solo il volto della Donna può aiutarti a non dimenticare la tua dimensione umana, a non perdere il percorso della tua umanizzazione.
Siamo fratelli perché figli di Dio, ma anche perché tutti figli di don-na. E che delle interpretazioni del femminile, don Gaetano abbia scelto l’Addolorata, è forse meno una concessione alla devozione emozionale dei certa religiosità popolare di quanto non sia la provocatoria promo-zione di un femminile alternativo: dalla donna schiava, alla donna og-getto, alla donna protagonista dell’amore e del dolore.
Due esperienze fondamentali che rischiamo da sempre di banalizza-re, dandole per scontate o dandole per negative. E invece no. Il grande successo della donna oggi, conferma chi sa elaborare costruttivamente queste esperienze sta meglio in piedi.
La figura dell’Addolorata non rimanda alla sconfitta o alla debolezza ma alla forza della dolcezza, della tenerezza, della resistenza. Alla grande energia che proviene dalla modestia del vivere, come dalla pas-sione dell’amare.
Le figure del femminile circolanti sono meno consistenti, ci pare.