di Antonio Palmiero

Il vangelo di Giovanni (10,1-10) nel presentare la “parabola del buon pastore”, ne elenca le note caratteristiche: conosce le pecore una ad una, le chiama per nome, se ne prende cura personalmente, le fa uscire dall’ovile per condurle al pascolo e, quando tutte sono uscite, cammina avanti ed esse lo seguono, perché ne conoscono la voce e ne hanno fiducia. Un rapporto pastore-pecore ispirato a profonda familiarità e fiducia. Vivono l’uno per l’altro. Il pastore dà la sua vita e le pecore lo seguono sentendosi al sicuro con lui. In questo anno dell’Eucarestia questa parabola, che presenta Cristo come il pastore che si mette avanti alle pecore e le guida al pascolo, fa pensare alla messa della domenica, dove Egli, il buon Pastore, guida il suo popolo alla mensa dell’Eucaristia, preparata con e per amore, perché si nutra della sua Parola, del suo Corpo e Sangue ed “abbia la vita e l’abbia in abbondanza” (Gv.10,10). Ma, mentre vede mangiare alcune pecore, il suo cuore palpita per quelle che sono lontane e si promette: “anch’esse io devo guidare, ascolteranno la mia voce e saranno un solo gregge con un solo pastore”.
L’anche esse io devo guidare ci fa pensare all’azione ininterrotta di Cristo attraverso i suoi pastori, incominciando dal Papa ai Vescovi ed ai sacerdoti, che non si stancano di chiamare i lontani ad avvicinarsi a questo pascolo ubertoso di vita, non sapendo quello che si perdono.
Gaetano Errico scrive ai suoi missionari e li esorta a “proporsi davanti agli occhi il Principe dei pastori, il sommo missionario, mandato dal Padre celeste, il quale in quella missione divina e fondazione della religione altro non si aspettava con il suo infiammato cuore che improperi e miserie” ed incoraggia con amore paterno quelli che si sentono stanchi per le fatiche dell’apostolico ministero: “Non vi avvilite per le molteplici fatiche”, perché “tutto quello che si soffre per la gloria di Dio ed il bene delle anime è poco”.
La sua vita ne è un esempio. Essa è donata alla sua gente, non gli appartiene più dal momento che gli è affidato una porzione di gregge nel giorno della sua ordinazione sacerdotale. E la gente che l’ha capito ne ascolta la voce, lo segue, entra con lui per la porta, che è Cristo, e si nutre al pascolo di vita eterna.
Chi dà la vita, la deve dare e basta. Non deve calcolarne il rischio, perché non gli appartiene più. Gaetano Errico nei colera del 1836 e 1854 lo si trova ovunque e tutti lo ricercano: “Durante l’epidemia colerica del 1854 – dicono i testimoni – diede prova di grandissima e prodigiosa carità, spendendosi continuamente per l’assistenza dei moribondi, per le confessioni continue dei sani e dei malati e per accorrere dovunque era chiamato per conforto ed aiuto”; “egli era di giorno e di notte incessantemente tutto intento per la santificazione del prossimo, per il quale faticava instancabilmente, senza mai venir meno”.
Con i suoi consigli, con le sue ammonizioni ed esortazioni, mai interrotte, e con i sentimenti, che continuamente comunicava negli stessi suoi privati discorsi, non faceva altro che “zelare la santificazione delle anime”, “accorreva anche alle malattie più schifose. Ciò non solo sull’ospedale Incurabili, ma anche nel nostro paese di Secondigliano, dove quando erano maschi, egli stesso li assisteva. Se poi erano donne, disponeva l’occorrente. La stessa attenzione ordinava che si praticasse agli infermi della comunità, dopo la fondazione dell’Istituto”.
Don Gaetano è il prete che pianta la tenda fra la sua gente. Egli non l’aspetta in sacrestia, ma la va a cercare per le strade, nelle case e nei luoghi di ritrovo: “Era chiamato ovunque per sedare litigi, per conciliare dissidenti, per confortare sofferenti, per sollevare infermi, per assistere moribondi. Non si negava mai. Talvolta ha lasciato la tavola ed il letto, nelle ore di riposo, ed è corso alle esigenze del suo prossimo”. Per don Gaetano il prossimo ha un volto, un nome, un indirizzo, una storia, che egli conosce bene. Per tutti ha una cura personale, una ricetta adatta al caso. Per lui c’è la folla, che, però, è fatta di persone. Per la gente egli non è il “prete”, è don Gaetano, “O Superiore”. E la sua voce è nota a tutti, per cui la si riconosce anche da lontano: “Arriva don Gaetano”. Tra don Gaetano e la gente non vi sono barriere, c’è un rapporto familiare. Da lui si va per tutti i problemi. Anche don Gaetano quando parla con la sua gente non cerca le parole, non apre il libro prima di parlare, ma il cuore. Parla alla paesana. A lui è consentito anche dire: “Avete goduto della festa ed ora dovete pagare”. E la gente non si lamenta, non critica, anzi dà anche di più, perché conosce tutto di don Gaetano, anche l’uso che fa dei soldi.
Il pastore è colui che dà la vita per le sue pecore. Quando don Gaetano muore il 29 ottobre 1860, se lo piangono tutti, perché ognuno lo sente suo. Appartiene a tutti. È il prete che è vissuto tra la gente e per la gente.